Non ho navigato i sette mari

L'introduzione al libro
di Paolo Vachino


Non ho navigato i sette mari comincia con una bellissima dichiarazione d'amore alla scrittura, della sua imprescindibilità nelle vite. Almeno nella vita di Luigi. E in un verso è condensata sia la potenza della 'grande domanda', sia l'ambiguità e il mistero che la pervade: "del non sapere se esiste e dove diavolo sia Dio". Luigi è il cantore dei silenzi e delle nostalgie: "resta una poesia da ricomporre / e nostalgia di silenzio". Scrive per "scoprire se esisto" e racconta la centralità di chi sta ai margini. Luigi raccoglie i cocci di un mondo che si sta sgretolando e li ricompone nelle sue poesie - mosaico di parole -, che prende la forma delle sue malinconie mai rassegnate, ma consegnate in dono a noi lettori. Luigi è seduto sull'altalena del presente, che prende la spinta da dietro, dal passato, per sorvolare il futuro alla massima altezza consentita all'uomo. "Canta una canzone così vecchia / che per tutti è nuova". Questo è il futuro di Luigi: una carontica traghettata di qualcosa che sopravvive, che resta, e viene da così lontano da sembrare di nuovo nuovo. Le donne di queste poesie sono una fusione perfetta tra una fata e una strega: diabolicamente celestiali. Luigi ci parla d'incontri come lampi del quotidiano che preludono la tempesta di un addio; della difficoltà di stringere legami; l'ebete beatitudine del cane che non avverte l'ombra della morte sui suoi passi; dell'amore così intenso tra padre e figlio da trasformare il reale: "là dove il lago diventa oceano"; l'anelito frustrato ma non estinto di provare a fermare il tempo. Ma questa è la vita, ci suggerisce il poeta, che continua la sua marcia solitaria senza mai perdere la speranza, come testimoniano questi tre superbi versi: "guardo fuori / come sempre cielo grigio / i primi fiori gialli".



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