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COMPAGNO BELZEBÙ
Storia di amicizia e di morte


Flavio Villani

"Quando mi appresto a esplorare un’opera letteraria, non importa se narrativa, come in questo caso, o poetica, mi domando sempre, e non senza una certa apprensione, se tale opera sarà in grado di rivelarmi qualcosa d’importante, certamente qualcosa del mondo poetico dell’autore, ma anche, più in generale, di noi stessi. Spesso, purtroppo, la mia attesa risulta disattesa. Non è infrequente che autori anche “di grido”, tecnicamente ineccepibili, non abbiano nulla da rivelarci. Ed è questo, al di là di ogni valutazione tecnico-formale, il dato più importante: considero infatti la parola rivelazione chiave di volta nella valutazione di un’opera letteraria. Ben venga chi è in grado di rifuggire il noto e di svelare, di scoperchiare la pentola orripilante delle finzioni, di demistificare i mascheramenti, le insincerità, le macchinazioni che caratterizzano l’umanità, qualunque mezzo letterario, tradizionale o d’avanguardia, utilizzi per fare ciò. A mio parere Luigi Maffezzoli, con il racconto “Compagno Belzebù”, è riuscito in tale difficile impresa: rivelare se stesso, raccontandoci nel contempo qualcosa della natura umana, dell’uomo e dei suoi sistemi di valori. Il racconto, semplice nell’idea e nell’impianto, realizzato con la leggerezza di scrittura usuale per Maffezzoli, è permeato da una vena di malinconia per un’epoca passata, gli anni ’70, con i suoi movimenti politici, i suoi idealismi, le sue miserie; epoca tradita, secondo l’autore, già nel momento in cui i fatti erano in pieno svolgimento. Ma la nostalgia per un’epoca e per i suoi ideali non è fine a se stessa, non è solo vagheggiamento per la giovinezza ormai definitivamente passata, è il mezzo per dirci, senza equivoci e con molto coraggio, che la base di determinati movimenti era già erosa alla nascita, come il vero volto della nomenclatura maoista ci ha poi definitivamente svelato. Egli tuttavia, e nonostante tutto, non rinuncia a dirci che un sistema di valori alternativo potrebbe esistere se solo se ne volesse prendere atto. Sì, ma quale? Già nella bella citazione di apertura, tratta da “L’affaire Moro” di Leonardo Sciascia, è chiaramente enunciato il sistema di valori a cui l’autore fa riferimento: la vita è ben poca cosa, sembra volerci dire, una lotta insensata e senza quartiere, se non c’è pietà. Pietà per i più deboli, per i diseredati, che siano gli indiani d’America o Alice, malata mentale o tossicodipendente, personaggio fantasma che trasla da un’epoca all’altra senza lasciare segno di sé fino al momento in cui vendica un antico misfatto; relitto di un’epoca in fondo storicamente non così distante, oggi anni luce da noi; un’epoca di grandi violenze ma anche di sogni e di ideali vissuti da qualcuno con la sincerità e l’intensità del fanciullo. Chi conosce l’opera narrativa e poetica di Maffezzoli sa che la pietà è dominante in tutta la sua opera. “La pietà è penetrata in lui” dice Sciascia: anche l’assassino più brutale o il poliziotto più inflessibile, se mantengono un barlume di umanità sono in grado di lasciarsi penetrare dalla pietà. La pietas, intesa forse in senso antico e più ampio della pura misericordia cristiana, per qualcuno è un tradimento, per noi, al contrario, quando si contrappone all’inflessibilità delle idee aberranti, è uno dei tratti più caratterizzanti ed elevati dell’umanità. La pietas, profondamente umana, fatta di solidarietà e capacità di ascolto, rispetto per il prossimo e odio per le ingiustizie e le discriminazioni, permea infatti diversi personaggi del racconto. Tale virtù sembrerebbe tuttavia necessitare, perché da idea si faccia atto e raggiunga il suo fine di umanizzazione, il sacrificio di un innocente. Il sacrificio di Belzebù non mi appare così distante da ben altri sacrifici, ma contiene in sé un ossimoro dato che l’idea che il diavolo possa sacrificarsi per il bene altrui dimostra che il Bene e il Male non stanno evidentemente laddove immaginiamo debbano stare. Forse, dopo tutto, Maffezzoli è ancora convinto che l’umanità non sia così senza speranza. Il dato preoccupante, secondo la mia assai più pessimistica visione del mondo, è che, nonostante più di duemila anni di storia, sia ancora necessario immaginare il sacrificio di uno per ottenere la salvezza di tutti."
Postfazione al racconto pubblicata sul libro.



Alberto Figliolia

Crepuscolo/ ha odore di prato,/ canto di uccelli migranti,/ sapore di pane,/ orizzonte di onde. dalla poesia "Pandora" di Luigi Maffezzol

In un'epoca di riflusso, egoismo, ipocrisia, dominata da caste e lobbisti, dove il presente è incertezza, il futuro una porta chiusa e il passato qualcosa da rimuovere o revisionare; in un'era in cui il denaro è marcio valore, la ricchezza è distribuita con somma iniquità, l'ideale è da sbeffeggiare e la realpolitik con il suo presunto pragmatismo avalla ogni sorta di ingiustizie sociali, in cui il lavoro vale meno della virtualità, regno, quest'ultima, degli imbrogli della finanza mondiale che distrugge economie e vite; in un tempo fatto di facce politiche sconcertanti, screditate, corrotte e meschine, di malaffare e di oppressione di individui e genti contro ogni logica evolutiva di democrazia partecipata... ben venga il lavoro di poeti e scrittori come Luigi Maffezzoli, milanese nato casualmente a Berna. Di lui nella circostanza vorrei citare il racconto lungo Compagno Belzebù, uscito per i tipi degli Editori della Peste un paio d'anni or sono, ma estremamente attuale, inserendosi in una produzione che sa spaziare con eguale valentia fra versi e prosa.
Dalla quarta di copertina: «Aveva un pizzetto appuntito, ormai più grigio che nero, delle sopracciglia profonde due dita, capelli lunghi arruffati. Il soprannome, che da tempo era diventato il vero nome, dipendeva certo da quell'aspetto. Quanto al compagno era l'ultimo retaggio di una giovinezza avventurosa, prima in Italia, nei movimenti post sessantottini e poi in America Latina e negli Stati Uniti alla ricerca degli ultimi indiani».
Ce n'è quanto basta per accendere la fantasia, per innescare la curiosità.
Musica country in sottofondo, piove su Milano, piove sulle nostre vite, piovono ricordi e rimorsi, rabbia e rimpianti. Che resta delle nostre speranze, dell'impegno, della solidarietà, della voglia di cambiare il mondo? Perché si è ingoiati dal gorgo della violenza? La violenza istituzionale, la ribellione che degenera, gli errori del sistema, tutti come pedine del caso in un'incomprensibile scacchiera.
Gli indiani metropolitani e l'allegria della rivoluzione, l'idea che una rivoluzione possa essere gentile e creativa. Gli autonomi. Ribellione. La degenerazione dei gesti. Sono caduti i fiori e hanno lasciato solo simboli di morte (Canzone delle osterie di fuori porta, Francesco Guccini). L'oblio. Tradimenti e ancora violenza. Abbandoni.
Eppure una tenerezza invincibile che cerca di dare un senso a questi giorni osceni.
Una storia breve, semplice e insieme complessa, ironica, crudele e delicata, un modo di tornare a quegli eventi che hanno marchiato la generazione dei cinquantenni-sessantenni, di esplorarne il lascito “politico” e sentimentale, confrontandolo con il vuoto e il vacuo che sono nell'oggi insieme con la dimenticanza dei propri diritti e l'incapacità, la non voglia, di battersi per il progresso e la felicità. A proposito, qual è il Paese che ha sostituito il concetto di PIL con quello di PIF, Prodotto Interno della Felicità?
Un sogno, una grande idea.
Cantava De André: Voi non potete fermare il vento/ gli fate solo perdere tempo...

Tellusfolio.it 11-9-2011



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