Mary della valle e altre storie
Briciole



La passante




Tornò il buio e il silenzio nello scompartimento, ma il treno non si fermò. Inizialmente rallentò, poi cominciò a levitare, dolcemente. La ragazza non si scompose, si lasciò cullare dal movimento appena ondeggiante del treno. Ci alzammo sempre più in alto, la notte era serena e la luce della luna entrò nel vagone e illuminò il viso della giovane.
Guardai fuori, era vicina vicina che in breve l'avremmo potuta raggiungere. Il treno saliva come una mongolfiera ma l'evento non mi spaventava, anzi mi rilassava. Uno stormo di uccellini ci passò di fianco, il loro cinguettio ruppe il silenzio, ma solo per il tempo breve del loro passaggio.
(Dipinto di Marc Chagall)



La mia strega
(Liberamente ispirato al racconto "La strega Galvana" di Mauro Corona)


Mi voleva bene la mia strega. Ed io amavo lei.
Talvolta mi risveglio di soprassalto, sotto questa roccia che mi ripara dal gelo della notte, la mia dimora da quel mezzogiorno di luglio, quando finì la mia pace e persi tutti gli amici.
Persi anche lei, ma in questi risvegli improvvisi mi pare per un attimo di intravederla. Alta, coi capelli sciolti, neri come i corvi, ultimi abitanti della nostra vecchia casa, le sue gambe nude, forti come quelle dei tori. I suoi occhi che sapevano amare e sapevano uccidere.
Le vedo ancora pendere dalla cintura la sua arma con la lama curva a punta che odora di sangue e può tagliare una mano o un orecchio con un colpo solo. Mi sembra di vederla, che veglia il mio sonno, ma quando apro gli occhi e cerco di toccarla non sento la sua consistenza. E non sento il suo odore. E diventa trasparente e sparisce piano piano, ma io sono felice, so che è vicina a me e che mi protegge.




Oltre la linea degli alberi




Una linea dritta di alberi. Abeti, larici. La foresta inizia là. La taiga la chiamava mio padre. Ma è solo un bosco, grande, dove non si va, e, se ci si va, non si torna più.
Da bambino mi ci avvicinavo spesso. Ma la linea non la superavo mai. Era bello andarci in primavera. Il sentiero costeggiato di fiori che ogni mese cambiano e cambiano i colori. Ci andavo con il mio cane. Annusava dappertutto, anche lui lo sapeva, che la linea degli alberi non la si doveva superare. Oltre: un bosco che faceva paura. Una barriera che a noi piccoli sembrava altissima, da non passarci i raggi del sole. Un'area d'ombra, d'inverno e d'estate.
Tanta voglia di sfidarla quella paura e una volta mi presi coraggio: avrei infranto la regola. Misi due tavolette di cioccolato e una borraccia d'acqua nello zaino; i biscotti del cane. Lui mi saltò su e mi baciò sulla bocca.



Un giorno d'autunno

Un giorno d'autunno, mentre tornavo da un paese a nord, presi freddo e mi ammalai.
Da allora erano passati sedici anni. Vivevamo in campagna, distanti dal paese, le visite erano rare. Guardavo passare le stagioni dalla finestra della mia stanza. Mi piaceva l'inverno con il ciliegio bianco di neve, i conigli che si avvicinavo alla casa cercando qualcosa da mangiare, il bosco di betulle che si intravedeva appena nella foschia. L'estate non l'amavo. Si respirava male e la stanza si impregnava di un caldo afoso e dell'odore del mio sudore che si mischiava a quello delle medicine.


Inverno di guerra


La scuola del paese era stata chiusa da alcuni mesi ma lui non aveva seguito i suoi compagni in pianura. Su due grandi scaffali in frassino che si era costruito da solo stavano ben in ordine i libri scolastici e i romanzi di Jules Verne. Stavano anche due libroni antichi di novelle. Erano scritti in cimbro, lui li conosceva quasi a memoria, ma ogni sera se li riapriva perché gli ricordavano le storie che suo padre gli raccontava da piccolo per farlo addormentare.



Mary della valle




Più strana di come me l'avevano descritta. E anche più bella. Mary, Mary della valle. La chiamavano così. Non ne conoscevo il cognome, se ne aveva uno l'aveva smarrito da molti anni. Pochi chili di ragazza, piccola, capelli lunghissimi neri. La carnagione indiana. Una camicetta bianca con i primi due bottoni slacciati, una gonna larga che lasciava scoperte appena le caviglie. Ci avevano provato in molti a corteggiarla. Viveva sola, una discreta fortuna, si diceva, ed era questa la principale ragione dei corteggiamenti. Fortuna che doveva precedere quella sua vita solitaria e che lei aveva reinvestito nella piccola locanda Valle Felice che si trovava a 200 miglia dal primo abitato, dove in una giornata potevi al massimo incontrare uno, due camionisti di passaggio. Sabbia ed erba secca, qualche uccello di passaggio e cactus sullo sfondo: di felice quel posto non aveva niente. Con il sole che anche a maggio già bruciava il poco verde e il vento del diavolo che ti riempiva i polmoni di sabbia. E lei era lì, sola, sempre gentile a portarti il tè, o più spesso, whisky di buona qualità. Sui quaranta, ma portati bene, a parte le rughe sotto gli occhi, tracce ad indicare un'altra vita, lontana, e ferite che il tempo e il sole avevano cicatrizzato.
Mi accolse con la scopa in mano. Aprì a metà la porta.
"Qualcosa da mangiare. Dopo sei ore di deserto mi va bene anche un serpente".
"Quelli di qui sono tutti velenosi. Ma ti posso fare la migliore bistecca di tutta la valle".
"Se ci metti anche una patata ti chiederò di sposarti".
Non gradì la battuta. Mi fece segno di sedermi e andò in cucina.
      
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